Area Ermeneutica
uscito il 15 marzo 2022
Ciò che passa per “istinto di vita” lo abbiamo in comune con l’animale: è la stessa vita che vuole vivere, anche nostro tramite o nostro malgrado, ed essa non si arresta, non si ferma, non si modifica, non si piega ai nostri desideri: è il cosiddetto stemma della necessità, per il quale il soggetto autore torna a scoprirsi spettatore. Ma in questo farsi spettacolo della Verità la gravidanza è proprio il primo esempio della possibilità dell’abbraccio non frontale, e perciò caso limite, tra due entità separate ma “connesse”. Siamo estranei alla nostra vita: posso sempre decidere di farla finita (il suicidio), ma non posso decidere di farla nascere. E se prima della nascita la madre già interagisce con il suo bambino, dopo la nascita l’interazione si propaga all’esterno, fondendo la natura con un abbraccio primordiale, quello che ci ha accolto per consolare i nostri primi vagiti, quello che ci ha sussurrato “Benvenuto”.
195 pagine, 221 riferimenti bibliografici, 429 note
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uscito in novembre 2020
“
Mi sono alzata una notte per andare in bagno, ed ecco che sbirciando la camera dei bambini li ho trovati nel sonno a tenersi per mano”. Non esiste un Io se non c’è un Tu. Ma chi è l’Io se è un tu a far essere io quell’Io? E chi è il Tu se non c’è un Io a far essere tu quel Tu? L’Io è costruzione e risposta, in un colloquio infinito per infinite vite già trascorse e per quelle non ancora venute. Da ricordare agli psicologi che trattano l’Io come se fosse una categoria eterna, mentre ha soltanto tre secoli di vita.
173 pagine - 374 note - 163 indicazioni bibliografiche
Dia-ferenze
Nel mondo vi sono tante dia-ferenze. Da dove vengono? La prima, quella che si manifesta già solo guardandoci allo specchio, è che il mondo è dia-ferito in maschio e femmina. Sarà questa l’espressione fondamentale della natura? Platone ci narra dell’androgino nel suo celebre Convito, un essere ermafrodita (andro- maschio, e gyné, femmina) che esisteva prima che Zeus tagliasse in due gli uomini “come si fa con le sogliole”. Platone non poteva sapere che non si trattava solo di un mito. Ciascuno di noi, prima di venire alla luce, è stato maschio e femmina per almeno 6-7 settimane. Dunque l’originario è l’intero. Infatti l’originario è un in-diaferente, perché tutte le dia-ferenze vengono dopo, molto dopo. Bisogna attendere il linguaggio, perché solo il linguaggio, nominando le cose, instaura le dia-ferenze: “Un tempo fui giovinetto e giovinetta, arbusto e uccello, muto pesce di mare che guizza tra i flutti” (Empedocle DK 68B 17). Il valore convenzionale delle dia-ferenze è già presente in Parmenide, per il quale “saranno tutti nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore” (DK 8 38-41). Eraclito sceglie il dio come il massimamente indifferenziato, infatti: “il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame” (DK 67), “L’uomo ritiene giusta una cosa, ingiusta l’altra. Per il dio tutto è bello, buono e giusto” (DK B102). Yaweh nella Bibbia dice di sé: “Sono io che formo la luce e creo le tenebre; che faccio la pace e creo il male. Io sono il Signore, che fa tutte queste cose (Isaia, 45, 7). Con quest’ultima dia-ferenza si fa strada il “rospo” più difficile da mandare giù: Dio è l’origine del bene e del male, e con questo le nostre dia-ferenze si rivelano per quel che sono: patetici stratagemmi di contenimento dell’indifferenziato.
Con questo testo l’autore osserva che le religioni tradizionali non sono più quel rifugio rassicurante nel quale coltivare la nostra imperturbabile tranquillità, ma sono quel cascame tragico, sepolto dalla sabbia del tempo, che non ha mai smesso di abitare i nostri sogni e, in modo più inavvertito, anche le veglie. In questo territorio di nessuno dèi e demoni si danno convegno annunciando l’apocalisse dello spirito. I nostri strumenti di contenimento, di giorno così potenti, alla notte cedono il passo all’egemonia del sacro. Non la notte che si approssima dopo il tramonto, ma quella notte che perdura anche alla luce del giorno. Crollate le religioni storiche l’uomo è solo a gestire l’inquietante vicinanza. Se è vero che “Dio è morto”, come vuole Nietzsche, è altrettanto vero che il sacro è invece più vivo che mai. Questa è una dimensione che, proprio per il suo abbandono da parte delle religioni ufficiali, non possiamo che gestire nella più assoluta solitudine. Scavando in questo terreno che precede la maschera delle dia-ferenze, non troveremo null’altro che quell’indifferenziato da cui ritenevamo di esserci emancipati e a cui, proprio per questo, da tempo non offriamo più sacrifici. Questo volume ci avverte che è venuto il tempo di prestare attenzione non a ciò che indicano le nostre usurate parole, ma a quel silenzio che, solo, può restituire la parola agli dèi.
Con questo testo l’autore osserva che le religioni tradizionali non sono più quel rifugio rassicurante nel quale coltivare la nostra imperturbabile tranquillità, ma sono quel cascame tragico, sepolto dalla sabbia del tempo, che non ha mai smesso di abitare i nostri sogni e, in modo più inavvertito, anche le veglie. In questo territorio di nessuno dèi e demoni si danno convegno annunciando l’apocalisse dello spirito. I nostri strumenti di contenimento, di giorno così potenti, alla notte cedono il passo all’egemonia del sacro. Non la notte che si approssima dopo il tramonto, ma quella notte che perdura anche alla luce del giorno. Crollate le religioni storiche l’uomo è solo a gestire l’inquietante vicinanza. Se è vero che “Dio è morto”, come vuole Nietzsche, è altrettanto vero che il sacro è invece più vivo che mai. Questa è una dimensione che, proprio per il suo abbandono da parte delle religioni ufficiali, non possiamo che gestire nella più assoluta solitudine. Scavando in questo terreno che precede la maschera delle dia-ferenze, non troveremo null’altro che quell’indifferenziato da cui ritenevamo di esserci emancipati e a cui, proprio per questo, da tempo non offriamo più sacrifici. Questo volume ci avverte che è venuto il tempo di prestare attenzione non a ciò che indicano le nostre usurate parole, ma a quel silenzio che, solo, può restituire la parola agli dèi.